Immobili e contenti
Quando qualcosa rimane immobile si copre di polvere: lascia traccia di sé solo quando viene sollevata e pulita. Per tornare, poi, a stare e basta. Dal ninnolo inutile sul comò allo Stato Nazionale. Un paese come il nostro non ha mai voluto spostarsi un po', togliere lo sporco e cercare di farsi notare. Tra le tante cose che non si possono accettare c'è anche questa: la passività e l'indolenza. Ciò che appare straordinario, urgente, poi, resta fisso e diviene permanente. Pensate solo ai lavori sulle autostrade o a certi musei, nati già chiusi e tali rimasti. Nella società degli uomini, dove la persona è quell'entità che decide e può cambiare (sia le cose che i suoi simili), l'immobilismo per antonomasia non dovrebbe essere una regola. Nasce da questo il lento scivolare verso l'indifferenza e la paura. E se potrebbe sembrare una scusa, invece si rivela essere una comoda presa d'incoscienza, soporifera e totale. Nei meccanismi della famiglia, come della politica, si aspetta che passi la nottata e che nulla cambi. Senza timore, non c'è pericolo. L'unico problema potrebbe venire da un rigurgito di attività cerebrale, ma ricordiamoci che il tubo catodico, assunto a dosi massicce, funziona perfettamente come antidoto.
“In tutti i paesi del Mondo questi aspetti vanno, in diversi modi e maniere, mutando: e mutando si annullano. Il loro carattere, quello che li crea, è infatti l'immobilità, la permanenza delle cose morte ed estranee. Si chiama depressa un'area immobile, ferma: o quella parte della popolazione di un paese che essendo trattenuta immobile, fuori dall'esistenza, non partecipando, perde la connessione con le cose vive, che mutano: e diventano un corpo estraneo. Il problema delle aree depresse è dunque quello della “alienazione” parziale o totale dell'uomo. L'uomo è uno e libero, solo se non respinge da sé una parte di se stesso. Una società che non solo tollera nel suo seno della parti alienate, ma le costringe a rimanere tali, o si fonda addirittura sulla permanenza dell'alienazione, non è una società viva.”
(Carlo Levi)
Catherine Yass, "Corridors", 1994, Tate Modern Collection, London.
Quando qualcosa rimane immobile si copre di polvere: lascia traccia di sé solo quando viene sollevata e pulita. Per tornare, poi, a stare e basta. Dal ninnolo inutile sul comò allo Stato Nazionale. Un paese come il nostro non ha mai voluto spostarsi un po', togliere lo sporco e cercare di farsi notare. Tra le tante cose che non si possono accettare c'è anche questa: la passività e l'indolenza. Ciò che appare straordinario, urgente, poi, resta fisso e diviene permanente. Pensate solo ai lavori sulle autostrade o a certi musei, nati già chiusi e tali rimasti. Nella società degli uomini, dove la persona è quell'entità che decide e può cambiare (sia le cose che i suoi simili), l'immobilismo per antonomasia non dovrebbe essere una regola. Nasce da questo il lento scivolare verso l'indifferenza e la paura. E se potrebbe sembrare una scusa, invece si rivela essere una comoda presa d'incoscienza, soporifera e totale. Nei meccanismi della famiglia, come della politica, si aspetta che passi la nottata e che nulla cambi. Senza timore, non c'è pericolo. L'unico problema potrebbe venire da un rigurgito di attività cerebrale, ma ricordiamoci che il tubo catodico, assunto a dosi massicce, funziona perfettamente come antidoto.
“In tutti i paesi del Mondo questi aspetti vanno, in diversi modi e maniere, mutando: e mutando si annullano. Il loro carattere, quello che li crea, è infatti l'immobilità, la permanenza delle cose morte ed estranee. Si chiama depressa un'area immobile, ferma: o quella parte della popolazione di un paese che essendo trattenuta immobile, fuori dall'esistenza, non partecipando, perde la connessione con le cose vive, che mutano: e diventano un corpo estraneo. Il problema delle aree depresse è dunque quello della “alienazione” parziale o totale dell'uomo. L'uomo è uno e libero, solo se non respinge da sé una parte di se stesso. Una società che non solo tollera nel suo seno della parti alienate, ma le costringe a rimanere tali, o si fonda addirittura sulla permanenza dell'alienazione, non è una società viva.”
(Carlo Levi)
Catherine Yass, "Corridors", 1994, Tate Modern Collection, London.
un abbraccio, buon 2009
RispondiEliminaBuon 2009, Daniele.
RispondiEliminaContestare vuol dire voler migliorare pero', se ci guardiamo intorno, non siamo poi malaccio, noi italiani.
Pensa ai belgi, agli austriaci, per restare in Europa...
Noi qualche pensiero continuiamo a produrlo.
Poi e' anche vero che votiamo Berlusconi, ma forse e' proprio questa fantasia il nostro miglior pregio.
Voler cambiare quello che non va è sintomo di desiderio di vivere e di essere dentro un mondo diverso e, passami l'espressione retorica, migliore.
RispondiEliminaBuon Anno!
Daniele il Rockpoeta
Non so se sono del tutto d'accordo con Levi. Secondo me l'alienazione è intrinseca alla società stessa. Serve anche per consolidare l'identità sociale in opposizione ad essa. Poi, certo, ogni affermazione del genere dovrebbe essere contestualizzata nell'humus che l'ha prodotta...
RispondiEliminaBuon inizio anno.
RispondiEliminaCiao
Io, invece, sono d'acordo con Levi... Buon anno anche se in ritardo, Giulia
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