Ieri, dopo 158 giorni di detenzione per "diffusione di notizie false", "incitamento alla protesta" e "istigazione alla violenza e ai crimini terroristici", a Patrick George Zaki è stata di nuovo negata la libertà. La battaglia per la sua scarcerazione, contro una prigionia ingiusta ed incivile, va, quindi, avanti. Ma la battaglia di chi? Certamente della sua famiglia, dei suoi avvocati, di un intero movimento per i diritti civili che in Egitto da anni combatte contro il regime (questo è ) di Al-Sisi. E la battaglia di molte, moltissime persone in Italia e nel mondo che, ogni giorno chiedono che questo ragazzo possa tornare alla sua vita normale, a studiare, magari a Bologna, da dove è giunto quando è stato fermato.
Di vicende come questa ce ne sono a migliaia. Perché, quindi, pensare solo a lui e non a tutti gli altri nella medesima situazione, in Egitto o in altri parti del pianeta? Spesso questa domanda viene posta a chi fa "proprie" determinate vicende e, attraverso i social, se ne interessa, chiede giustizia e libertà, cerca di interpellare le autorità. Le molte associazioni ed organizzazioni umanitarie sono le prime, giustamente: hanno il nome e la reputazione per farlo, godono di ampia diffusione anche su media tradizionali. Chi lo fa in nome proprio spesso no. Sono semplici cittadini che sentono il dovere morale di "fare" qualcosa, di interessarsi umanamente.
E' pur sempre vero che certe discussioni, certe posizioni andrebbero calate nel reale, con manifestazioni, picchetti, interpellanze. E, seppur non sempre, anche questo viene fatto. La maggior parte degli interventi, però, resta sul "foglio" di un Tweet o di un post sui social network. Moltissimi pensano non serva a nulla ed i più maliziosi, i più cinici indugiano nella convinzione che sia fatto per un ritorno di chi lo scrive: un like, un apprezzamento, un attimo di notorietà. Fatto da non escludersi a priori. Nessuno di noi potrà mai sapere cosa muove realmente una persona a donarsi ad una causa, per quanto giusta sia. Il pericolo dell'opportunismo è reale.
Inoltre, si obietta che sarebbe giusto farlo per tutti quelli che vivono situazioni drammatiche, che rischiano la vita, che sono imprigionati o torturati. Insomma, appare evidente che muoversi in favore di qualcuno porta facilmente ad essere visti come "di parte", attenti a pochi piuttosto che a tutti. E' uno dei fraintendimenti più comuni, in questa era che ha portato a chiunque la possibilità di essere nel mondo, non solo di conoscere le cose riportate da giornali e TV: ogni avvenimento è immediato, fruibile, commentabile, riportabile.
Un impegno, se lo si vuole chiamare così, che ci sentiamo in obbligo di onorare.
La libertà personale di esprimersi diventa quasi discutibile e ciò genera una sorta di competizione inutile e dannosa. Avere a cuore qualcuno, seppur distante, sconosciuto e che mai incontreremo, non è un difetto: si chiama umanità, senso di partecipazione emotiva, interesse civile. Non andrebbe messo in discussione, perché è intimamente legato al sentire di ognuno. E' fin troppo semplice vedere del torbido in un post a favore, appunto, di Patrick Zaki e non di un altro prigioniero. E' impossibile per chiunque poter scrivere e spendersi per una purtroppo vasta platea di donne ed uomini che sono privati della libertà da Stati canaglia o da regimi autoritari.
Chiaramente a nessuno viene richiesto, immagino, ma è abbastanza usuale essere "accusati" di tralasciare questioni esiziali, sempre da parte di chi le ritiene tali. Sarebbe più fruttuoso ed anche più utile cercare di capire che la sensibilità di ognuno è diversa, ma non per questo meno valida della propria. E se proprio non si vuole sostenere questi piccoli segnali di partecipazione, seppur infinitesimali, almeno non si denigrino. I social sanno essere arena di rara cattiveria, enfatizzata dal loro essere in sé cassa di risonanza di ogni pensiero, anche non soppesato.
Forse una riflessione porterebbe alla comprensione o, almeno, ad uno dignitoso silenzio.
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